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L’imposta di successione si paga anche senza essere eredi?


È vero che chi non accetta l’eredità di un parente o viene nominato erede per testamento può starsene tranquillo finché non accetta?  Si può accettare l’eredità senza volerlo? E se salta fuori un testamento che nomina un altro erede, dopo che ho accettato l’eredità, che cosa succede? Se ne occupa una sentenza della cassazione pubblicata pochi giorni fa.  E la risposta ai quesiti non è così scontata. L’imposta di successione si paga anche senza essere eredi?Cass. 27 maggio 2025, n. 14063 E’ noto, si diventa eredi, subentrando nel patrimonio del defunto, solo se si decide di accettarne l’eredità, con una dichiarazione espressa, mediante scrittura privata o atto pubblico (artt. 470 ss. c.c.), o tacitamente, comportandosi da eredi (art. 476 c.c.), ed anche senza volerlo, se si è nel possesso dei beni ereditari e non si rinuncia all’eredità entro tre mesi (art. 485 c. 2 c.c.). E’ meno noto invece che, prima di questo momento, il soggetto individuato dalla legge o dal testamento (art. 457 c.c.) come mero chiamato all’eredità, si trova un “limbo” cui la legge ricollega diritti, volti a consentire la conservazione del patrimonio ereditario (art. 460 c.c.), ma anche doveri, come quello di presentare la dichiarazione di successione (art.28 c. 2 TUS) e … di pagare le relative imposte, rispondendone solidalmente, almeno entro il limite dei beni posseduti (art. 36 c. 3 TUS). Viene infatti fiscalmente equiparato all’erede, fino alla sua eventuale rinuncia all’eredità ( Art. 7 c. 4 TUS, art. 519 c.c.). Il mero chiamato dunque, deve fornire all’ufficio gli estremi e la base imponibile per liquidare l’imposta di successione, e per le successioni aperte da quest’anno liquidarle e pagarle direttamente lui; se nell’asse ereditario poi ci sono beni immobili autoliquida, e paga contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione, le imposte ipotecarie e catastali, l’imposta di bollo e la tassa ipotecaria (art. 33 c. 1 TUS). Un bell’impegno. Se ne può liberare (art. 28 c. 5 TUS) solo se, prima che scada il termine per presentare la dichiarazione di successione (art. 31 TUS), rinuncia all'eredità o, non essendo nel possesso di beni ereditari, chiede la nomina di un curatore dell'eredità (art. 528, c. 1 c.c.). La ratio della norma, cioè il motivo per cui è stata prevista, va individuata, ce lo ricorda la sentenza della Suprema Corte del 27 maggio 2025, n. 14063, “nell’esigenza che l'amministrazione finanziaria possa individuare immediatamente il soggetto obbligato al pagamento del tributo, senza attendere gli esisti delle controversie eventualmente incardinatesi tra i chiamati ovvero le titubanze dei chiamati rispetto alla decisione di accettare o meno l'eredità devoluta (Cass. n. 19030/2018; Cass. n. 22178/2020; Cass. n. 11832/2022)in caso di rinuncia successiva del chiamato all'eredità”. Quindi, chi è indicato dalle legge o dal testamento come erede, intanto deve pagare, almeno nel limite dei beni posseduti, poi si vedrà come finisce, e chiederà eventualmente il rimborso, che non giungerà, in questo caso, nemmeno “a babbo morto”.  E deve pagare a prescindere dal fatto che abbia o meno accettato l’eredità. Lo ribadisce la citata decisione della Cassazione del 27 maggio, che ha analizzato una vicenda particolare. La “chiamata” all’eredità, operata dal primo testamento che nominava un erede, era poi stata “revocata” in seguito alla pubblicazione di altri testamenti, redatti successivamente dalla defunta, che ne nominavano altri. L’agenzia chiedeva il pagamento al primo chiamato, perché "nelle successioni testamentarie l'imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente” (art. 43 TUS). La Corte di primo grado le dava ragione, quella di secondo grado no. La Cassazione condivide la premessa dell’Agenzia, ma non la reputa decisiva. Conferma che “il presupposto dell’obbligo di presentare la dichiarazione, non è la qualità di erede accettante l’eredità, bensì quella di chiamato all’eredità”, a prescindere dal fatto che l’abbia o meno accettata tacitamente, circostanza su cui si era inutilmente discusso nei due gradi di giudizio, e che in effetti sembrava piuttosto evidente, dato che aveva anche agito in giudizio per difendere la validità del “suo” testamento. Conferma anche che il pagamento va fatto se “all'esito del giudizio, si determina il mutamento della devoluzione ereditaria, producendo ciò, a seconda dei casi, l'obbligo di presentare dichiarazioni sostitutive o integrative (art. 28, comma 6, dello stesso TUS)”, o il diritto al rimborso (art. 42, c.1, lettera e) TUS; Cass. n. 2484/2006), con la facoltà di surrogarsi all’Agenzia (art. 36 c. 3 TUS e art. 58 DPR 131/1986, TUR). In questo caso però era pacifico che il “primo” testamento fosse stato revocato dagli altri, perché quello posteriore “annulla le disposizioni che sono con esso incompatibili” (art. 682 c.c.), anche quando non le revoca espressamente. La Cassazione conclude che la presentazione della prima dichiarazione di successione, “correlata alla chiamata all'eredità divenuta tamquam non esset” (cioè come se non fosse mai esistita) “non fa sorgere ex se l'obbligo tributario (v. Cass. n. 8053/2017) né nelle ipotesi di rinuncia all'eredità (v. Cass. n. 22017/2016; Cass. n. 868/2018; Cass. n. 5777/2023) né in quelle in cui il testatore abbia revocato […] le precedenti disposizioni testamentarie con il successivo testamento, in quanto la revoca del precedente negozio, ripudiando questo come espressione attuale della volontà del de cuius, ne fa perdere in via retroattiva - ovvero dalla data dell'apertura della successione - il valore di fatto giuridico (negoziale)”. Cioè: quando un testamento viene pacificamente superato da uno successivo, “mancando una valida espressione della volontà testamentaria in favore del predetto (v. Cass. civ. n. 27161/2017)”, c’è poco da discutere, e non c’è bisogno di definire il giudizio eventualmente in corso.  Vero che poi i successivi testamenti in favore di un terzo sono stati impugnati dal beneficiario del primo, ma ciò non fa rivivere la sua chiamata all’eredità.  A meno che poi non passi in giudicato la sentenza gli dà ragione, e annulli i testamenti successivi. Allora sì, sarà necessario integrare le dichiarazioni (art. 28 TUS) e attivare i rimborsi dell’imposta eventualmente già versata (art 42, c 1, lett. e) da quelli chiamati con i successivi testamenti, poi annullati.  D’altra parte quando il testamento è chiaro, ed è l’ultimo, non si può aspettare sempre una sentenza, qualcuno lo deve pure attuare. All’università si studia che in claris non fit interpretatio, non occorrerebbe, cioè, interpretare ciò che appare evidente; il che, tuttavia, non è del tutto vero.  Un’attività interpretativa è sempre necessaria, anche, e soprattutto, per attuare la volontà testamentaria, spesso espressa nell’olografo in modo atecnico; è ciò che quotidianamente fanno i notai, che provvedono a pubblicarlo, a formalizzare l’eventuale accettazione o rinuncia, a presentare la dichiarazione e liquidare le imposte, a consigliare e spesso a riconciliare i chiamati, a predisporre e attuare l’eventuale divisione del patrimonio ereditario. E, come tutti gli altri professionisti, in particolare i commercialisti, gli avvocati e consulenti del lavoro, assumendosene la responsabilità, guidano i clienti in una scelta, consapevoli che l’agenzia delle entrate, o i giudici, potranno poi rivederle, e che vendere le certezze richieste dai clienti è impossibile, ma, con molto impegno, e un po’ di coraggio, ci si può avvicinare.


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